Io pedina inconsapevole dell'accoglienza

Milano Linate, 29 Giugno 2019.
Sto per prendere un volo per New York con scalo a Fiumicino. Troppo presto per essere mattina, quindi caffè. Vicino a me due signore commentano la notizia del giorno sullo sbarco della Sea Watch. Non volevo ascoltarle ma erano accanto a me, praticamente in braccio.
“Hai letto su fb?”
“Cosa?”
“Della Sea Watch, della nave con la Capitana che sta facendo sbarcare i migranti contro le leggi”.
“Non so dove andremo a finire. Davvero. Ormai poi la gente parla di tutto, ognuno esprime idee e pubblica cose senza collegarsi più alla realtà. Si parla di persone, di vita e di morte come se non fossero veri. Ad amare o ad odiare tutti, non si accoglie o si respinge più davvero nessuno, si parla e basta.”.
Ormai non le ascolto più ma raggiungo il gate con il caffè ancora addosso e quelle parole in testa. Ho un lungo viaggio da sola davanti, che altro ho da fare? Mi tengo lo stimolo e ci ragiono, grazie signora, non volevo farmi i fatti suoi ma ormai è andata così!.
Mi colpisce la forma impersonale che ha usato la sciura “Si parla di…”, come a voler dare un tono universale alla sentenza e capisco che è proprio da quello che ho necessità di discostarmi con i miei pensieri. In era social, la virtualità è spesso impersonalità. E io ci sono dentro a volte fino al collo. Forse è una buona occasione questa per riprendersi in mano - penso. Così, dalla forma impersonale con un po’ di coraggio passo a quella attiva, ci aggiungo un soggetto e ci metto il mio. Io. Provo ad andare indietro con la memoria e ad accettare la sfida ricordando volti, incontri, situazioni di vita, quelle volte in cui mi sono trovata dal vero e davvero ad accogliere (o respingere). Ognuno di noi ha un in certo senso un rapporto personale con l’accoglienza o il suo contrario, non è una cosa di oggi, non è nata con la Sea Watch o con tutto quello di cui si scrive e si parla ogni giorno su fb, sui giornali, in tv, in metro o all’aperitivo. No, è una storia che inizia da quando nasci e continuerà fino a quando muori perché ormai riguarda chi sei tutti i giorni. Forse.
Vado indietro con la memoria e mi ritrovo piccola così in una casa un po’ stramba in mezzo a un sacco di persone. Tra i ricordi, sbiaditi, imperfetti, mentre la hostess mi illude di come potermi salvare in caso di ammaraggio, scopro una cosa a cui non avevo mai pensato prima ad oggi. Io nella mia vita ho accolto, mio malgrado, un sacco di persone e non sempre è stata un’esperienza così facile e figa. Anzi, il più delle volte è stata una sfida e da giovincella, diciamoci la verità, un grande sbattimento. Forse è più onesto dire che sono cresciuta vedendo i miei genitori spalancare - e ora dovreste davvero immaginare una porta spalancata, lo state facendo? - le porte di casa. Io sono stata solo una pedina inconsapevole per cui accogliere, nel tempo, è diventato famigliare, con tutti i pro e i contro delle cose famigliari.

San Pietro di Bestazzo, 1991. Elementari.
A Bari sbarcano migliaia di migranti albanesi in fuga verso l’Italia sulla nave Vlora. Tra questi, circa quattro migranti albanesi arrivano a Cisliano, un piccolo paesino di 2000 anime alle porte di Milano. Quattro migranti per un paesino di provincia, come si può immaginare, sono già abbastanza per destabilizzare. Io avevo 9 anni e ricordo che, un paio di volte a settimana, arrivavano questi uomini a casa mia per telefonare in Albania. Li guardavo parlare attaccati alla cornetta. La stessa da cui chiamavo la Gra dopo la scuola. Mi dava un po’ fastidio, se devo essere sincera, chi erano questi sconosciuti che parlavano strano al mio telefono? Dopo un po’, però, era diventato un appuntamento esotico ascoltare quella lingua, li ascoltavo senza capire una cippa ma ne ero affascinata. Mi immaginavo la loro vita, la loro famiglia, chissà cosa si stavan dicendo. Li guardavo, io sdraiata sul divano e loro seduti sulle mie sedie che bevevano il caffè dalle mie tazzine, a gesticolar dialoghi con mio nonno e i miei genitori. La mia testa vagava ma dopo un attimo mi ricordavo che erano albanesi e che erano gli anni ’90, gli anni in cui quelli come loro erano tutti “spaccobotigliaamazofamiglia” e averli in casa tra le mie cose mi confondeva. “Non c’è troppo da fantasticare, Marta. Ti devi salvaguardare, proteggere. Che ti direbbero domani a scuola se solo sapessero che ci sono 4 albanesi in casa tua?”. Volavano pensieri. Iniziai così a chiedere spiegazioni ai miei ma le mie domande venivano liquidate da mia mamma e mio papà con un semplice: "Devono chiamare a casa per dire che stanno bene". Gli albanesi facevano paura a tutti e io li avevo in casa mia, a telefonare fin là per dire che stavano bene. Come potevo raccontarlo a scuola? Mamma, papà, santo cielo in che situazione mi state mettendo? Lo capite che se lo racconto ci faccio una figuraccia? Mi avrebbero guardato tutti male.  Robe da pazzi. Perché la mia famiglia non pensava alla nostra sicurezza?

San Pietro di Bestazzo, 1992-1994. Medie.
 
Guerra in Bosnia Erzegovina. Il Comune di Cisliano ospita, tramite un'associazione di volontariato, un gruppo di ragazzi e bambini serbo-croati per regalare loro una pausa di pace. La mia famiglia partecipa e per due anni consecutivi ospita prima due fratelli e poi una ragazza. Avevo 12 anni circa. Anche questa volta le mie domande vengono liquidate con un: " Stanno male nel loro Paese, hanno bisogno di stare meglio". Non sapevo nemmeno cosa fosse una guerra e nemmeno riuscivo a capire cosa stessero provando. La risposta era semplice: stavano male e con noi magari potevano stare un pochino meglio. Cercavo di farmela bastare. In realtà, da dodicenne tutto sommato serena, mi bastava avere coetanei nuovi in casa e così smisi di farmi domande e nacque una bellissima amicizia. Quando partirono mi ricordo che piangevamo abbracciati come quando finisce una vacanza al mare e lasci i tuoi amichetti. Mica ci pensavo alla guerra io, proprio no. Pensavo solo che forse non li avrei più rivisti e mi si spezzava il cuore.
Dopo qualche anno, invece, intorno ai 18 - 20 anni ho fatto un bellissimo viaggio on the road in terra serba per andarli a trovare. Stanno tutti bene, oggi sono miei amici su fb, sposati con figli e bla bla bla.
Crescevo. Non in consapevolezza politica ma sicuramente con un sacco di persone diverse intorno.

San Pietro di Bestazzo (frazione di Cisliano), 1995-2000. Liceo.

A casa mia eravamo 4 fratelli ma siamo sempre stati di più. Ormai non mi facevo più domande, per me era diventato normale tenere da parte qualche vestito che non usavo più da dare a qualcuno, oppure vedere mia madre al supermercato fare un po' più di spesa "se qualcuno ha bisogno". Era diventato normale avere sempre qualcuno in più a tavola, vedere mio padre non chiudere mai la macchina o quando suonava il citofono sentirlo dire: “Avanti!” al posto di “Chi è?”. Non so quante volte mi sono arrabbiata con lui per non dire mai “Chi è?” ma poi col tempo ho capito quanto le parole fan la differenza e quanto vivi esattamente come pensi. E lui vive effettivamente come pensa. In quel periodo comunque non potevo ancora sapere e le mie lotte per proteggere il mio diritto di non voler accogliere sempre e comunque chiunque ad ogni ora andava frantumandosi ad ogni tentativo. Intorno a me tutto era più potente della mia volontà perché non c’era narrazione ma pura azione. A quel citofono hanno suonato tutti, a volte aprivo a volte mi chiudevo in camera e facevo gestire il rito dell’accoglienza ai miei genitori. Salvaguardavo, per quel che potevo, il mio desiderio di dire no, ci sono prima io.  Oggi quel citofono ha ancora lo stesso suono, ha ancora quel driiiin con il volume così alto che aveva voluto mio nonno e che riconoscerei in qualunque parte del mondo. Sembra un allarme, una sveglia. Suona e ti desta. Oggi ci suono anche io molte volte e mi piace sentire “Avanti!” senza aver bisogno di dire chi sono.

San Pietro di Bestazzo (frazione di Cisliano) e Milano. Nuovo millennio.
Per circa 20 anni a casa dei miei genitori è sempre venuta anche una Rom che io chiamo con affetto “La Ti Prego” perché è da venti anni e passa che non inizia una frase in altro modo. Potrei riconoscere la sua voce e la sua particolare cantilena ovunque. Quasi come il citofono dei miei. Una volta l’ho incontrata in un bar e mi ha salutata come un'amica di vecchia data provocando stupore in tutto il bar. Sì, insomma, ero con una Rom a bermi il caffè e non era né lavoro né volontariato. Ma ci ho pensato solo dopo. Anche stavolta, nel mentre era normale. Ha pagato pure lei!
Crescevo così, vacillando tra l’inadeguatezza di non aderire come modello famigliare a quello vigente, più orientato al benessere e alla sicurezza delle proprie quattro mura, e alla certezza di avere davanti a me mamma e papà che giorno dopo giorno, anche se non sempre in una pacifica convivenza, facevano crescere in me una sorta di fiducia che mi sarebbe poi servita nella vita. Ma ancora non lo potevo sapere. 

C’è sempre un momento, però, in cui ad un tratto si capiscono le cose e si ha meno paura del mondo, della vita, degli altri. Ci sono voluti anni prima di capire cosa abbia spinto i miei genitori a metterci così in mezzo a situazioni di ogni genere, ad esporci alla vita e alla sua drammaticità senza proteggerci dal dolorenegliocchi di chi avevamo davanti. Ci sono voluti anni per capire gli effetti che ha avuto su di noi e sulle nostre vite questa consapevolezza. Io ne faccio i conti, i miei fratelli credo anche. La cosa più importante però è che quando nella vita mi serve coraggio di agire, di aprire una porta o bussare a una porta penso: cazzo i miei genitori ci hanno portato degli albanesi in casa negli anni ’90. Nessuno li ha obbligati o influenzati. L’han fatto solo perché pensavano fosse da fare.
Il rumore del decollo mi fa alzare lo sguardo dalla tastiera. Fuori dal finestrino vedo panna montata,  vicino a me -ovviamente- un bambino che piange, film e il mio pc. Sono partita. Manca ancora molto, praticamente ancora tutto il viaggio da fare, ma è da un paio d’ore che scrivo e che ho la testa su questo. Se non avessi bevuto quel caffè e non avessi sentito quella signora chissà quanto ancora ci avrei impiegato a regalare questo timido grazie ai miei genitori per avermi resa un’inconsapevole accogliente da giovane e una serena individualista da adulta, ma soprattutto per avermi dimostrato- e non detto -che si può davvero vivere come si pensa. Che è molto, molto di più di vivere come si vuole.

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